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Strumenti innovativi per la diagnosi di patogeni

LINEA 1

STRUMENTI INNOVATIVI PER LA DIAGNOSI DI MICROORGANISMI E  PARASSITI PATOGENI

 

M1.1; M1.2; M1.3 Metodi innovativi per la conta di batteri adesi in biofilm  a cateteri venosi centrali. Antibiogramma diretto su cateteri venosi centrali colonizzati da biofilm. Controllo di qualità microbiologica di bio- e nano-materiali

Fino a qualche decennio fa’, si riteneva che i microorganismi assumessero una sola forma morfologica, denominata planctonica, che consiste in uno stile di vita in cui i microorganismi sono sospesi liberi in un fluido biologico o in una soluzione. Esiste un solo metodo universalmente utilizzato e validato dalla Food and Drug Administration (FDA) per contare i microorganismi in fase planctonica in un campione biologico o ambientale. Suddetto metodo è denominato conta delle  Unità Formanti Colonia (UFC). Tuttavia, al contrario di quanto si riteneva, si è scoperto che per 1 microorganismo che vive in fase planctonica, 5.000-10.000 sono  in biofilm. Il biofilm consiste in un elevato numero di microorganismi tenuti insieme da un esopolisaccaride (EPS) da loro stessi sintetizzato. Il metodo della conta delle UFC non è affidabile per  la conta dei microorganismi in biofilm. Ne deriva che, al fine di contare i batteri che si sviluppano attraverso uno stile di vita diverso da quello planctonico, la microbiologia medica utilizza una metodologia validata che si basa sulla conta delle UFC dei batteri adesi e in biofilm rilasciati dai cateteri e device medici dopo trattamento con vortex e sonicazione (metodo di Cleri). Tuttavia, il metodo di Cleri mostra alcuni limiti tra cui l’incertezza sul  distacco di tutti i microorganismi adesi, unitamente al fatto che l’antibiogramma viene sempre eseguito sulla forma planctonica che è più sensibile agli antibiotici rispetto al biofilm. Questo limite potrebbe spiegare il motivo del significativo fallimento in vivo di molti antibiotici indicati come efficaci dall’antibiogramma. Altro importante limite del metodo di Cleri è l’aver fissato un cut-off di microorganismi distaccati pari a >103 /ml per considerare infetti cateteri e device medici, mentre se il numero di batteri riscontrati è < 103 , il dispositivo viene considerato non infetto o addirittura sterile. 

In questa ricerca abbiamo utilizzato un metodo biologico, da noi inventato, denominato BioTimer Assay, che permette di contare i microorganismi adesi o in biofilm senza manipolare il campione. BioTimer Assay utilizza un reattivo originale che contiene un indicatore in grado di cambiare colore a causa del metabolismo microbico. Il tempo richiesto per lo switch dell’indicatore è messo in relazione al numero dei microorganismi presenti nel campione al tempo 0, attraverso delle curve di correlazione specifiche per l’indicatore e il genere microbico.

Per quelli che vengono ritenuti sterili con il metodo di Cleri, il BioTimer Assay indica un valore quantitativo tra 102-103/ml. Questi campioni, sottoposti ad antibiogramma diretto su biofilm (il saggio con BioTimer non necessita alcuna manipolazione del campione) indicano la presenza di circa un 60% di batteri in biofilm resistenti agli antibiotici (per i dettagli vedi le schede tecniche M1.1, M1.2 e M1.3). Questo dato va preso in seria considerazione alla luce del fatto che il protocollo del metodo di Cleri scarta questi campioni e non procede ad ulteriori analisi che, per quanto semi-quantitative, sono necessarie almeno per l’identificazione del genere e della specie. In sintesi, BioTimer Assay mostra una sensibilità di 10 microorganismi/ml, e’ riproducibile ed ha un’elevata affidabilità. 

I dettagli tecnici sono riportati nelle varie schede tecniche M1.1, M1.2 e M1.3.

MI 1.1 Valutazione critica del valore di cut-off indicato dal metodo di Cleri.

Grazie a questo finanziamento, si è instaurata una collaborazione tra l’UO di Microbologia (prof.ssa Valenti) e quella di Malattie Infettive (prof. Mastroianni).

Infatti, i  risultati ottenuti nelle linee tematiche M1.1, M1.2 e M1.3, precedentemente riassunte,  hanno confermato i dubbi dell’UO MI1.1 che sta valutando criticamente il cut-off del metodo di Cleri.

In particolare, con il progressivo aumento del posizionamento di corpi estranei (protesi ortopediche, pacemaker/defibrillatori, cateteri venosi centrali, dispositivi neurochirurgici), si è assistito a un progressivo aumento delle infezioni ad essi associate, in cui, come gia’ detto, i microorganismi assumono il biofilm come stile di vita. La diagnosi microbiologica delle infezioni associate al biofilm necessita dell’utilizzo di tecniche che siano in grado di staccare il biofilm dalla superficie del corpo estraneo. Pertanto, l’obiettivo raggiunto da questa UO è stato quello  di valutare la sensibilità diagnostica ovvero l’aumento del distacco microbico mediante la tecnica della sonicazione nell’ambito delle infezioni associate a dispositivi intracardiaci impiantabili (pacemaker/defibrillatori) e compararla con la metodica del Biotimer Assay (messo a punto dall’UO Valenti).

 

M1.4a L’ importanza del biofilm nelle infezioni genitali da Chlamydia trachomatis

L’infezione genitale da C. trachomatis, principale infezione batterica sessualmente trasmessa nei paesi industrializzati, è considerata ancora oggi un problema di Sanità Pubblica. Ogni anno più di 130 milioni di nuovi casi si verificano nel mondo ma i dati di prevalenza globali sono largamente sottostimati dal momento che l’infezione è asintomatica nel 70%-80% delle donne, difficile da diagnosticare ed eradicare (vedi scheda tecnica M1.4a).

La mucosa cervico-vaginale rappresenta la via di ingresso di differenti microorganismi patogeni e, nella donna in età fertile, è popolata da una flora microbica rappresentata principalmente da lattobacilli. Le alterazioni della flora microbica cervico-vaginale comportano il prevalere di altri microorganismi, quali Candida albicans e Gardnerella vaginalis, il cui biofilm costituisce un  importante fattore di virulenza.

Considerato l’impatto dell’infezione genitale da C. trachomatis sull’apparato riproduttivo femminile, l’obiettivo della ricerca è stato quello di valutare, per la prima volta, l’interazione tra C. trachomatis ed il biofilm prodotto da C. albicans e G. vaginalis, utilizzando un modello in vitro costituito da cellule epiteliali della cervice uterina.

Risultati preliminari hanno evidenziato che C. trachomatis rimane intrappolata nel biofilm di C. albicans a 24 ore, mentre a 72 ore è in grado di diffondere ed infettare il monostrato cellulare in seguito a disgregazione del biofilm. Questo risultato apre la strada alla possibilità di diagnosticare la presenza di C. trachomatis e procedere precocemente ad una classica terapia con antibiotici o ad una terapia alternativa con lattobacilli o lattoferrina, già dimostrata e pubblicata da questa UO il cui responsabile è la prof.ssa Rosa Sessa.

La necessità di migliorare le tecniche diagnostiche è emersa anche per la diagnosi ed enumerazione delle particelle virali infettanti. Interessante appare  l’utilizzo di una strumentazione in commercio che è stata utilizzata per le titolazioni virali ed il tentativo di identificare sequenze geniche del Polyomavirus umano JC (M1.4b e M1.4c).

METODOLOGIE INNOVATIVE PER LA DIAGNOSI DI VIRUS

 

M1.4b  Utilizzo della strumentazione ODYSSEY per la titolazione di virus a DNA e a RNA

L’obiettivo principale dell’UO in questo I° anno di attività è consistito nella messa a punto di uno strumento innovativo per la titolazione e la caratterizzazione di virus a DNA e RNA. In particolare sono stati messi a confronto metodi classici di titolazione virale quali il metodo delle placche, il metodo della TCID50 (concentrazione di virus in grado di infettare il 50% del monostrato cellulare) e del test di emoagglutinazione, con nuovi test di titolazione virale utilizzando la strumentazione “Odissey CLx imaging System” acquistata di recente dal DSPMI.

Il tipo di metodica dipende dal tipo di virus preso in esame e quella  più spesso utilizzata è il saggio della conta  delle unità formanti placca anche se necessita di una significativa quantità di campione iniziale, non sempre è disponibile,  e di  molto tempo.

L’obiettivo dello studio è stato quello di sviluppare una metodica di titolazione virale utilizzando la tecnica “in Cell Western” grazie alla strumentazione “Odyssey CLx imaging System” che utilizza un sistema di rilevazione di segnale emesso da anticorpi con fluorofori che emettono a lunghezza d’onda vicino all’infrarosso (680 e 800 nm) “Near-InfraRed” (NIR) in paragone alla metodica dell’unità formanti placca.

I risultati ottenuti, titolando il virus con l’utilizzo della nuova metodica che utilizza l’Odyssey, sono esattamente sovrapponibili ai risultati ottenuti con il metodo tradizionale del Plaque Assay, come si evince dai dati dettagliati nella scheda tecnica M1.4b.

In sintesi, i vantaggi di questo metodo innovativo di titolazione virale sono molteplici: i) la riduzione di ben 10 volte della quantità di campione necessaria per l’analisi  rispetto alla metodica tradizionale; ii) la riduzione del tempo necessario per la titolazione (24 ore e non 48/72 come nella metodica tradizionale); iii) la titolazione contemporanea di  più campioni contemporaneamente.

 

M1.4c: Isolamento e caratterizzazione del Polyomavirus umano JC

Obiettivi ed innovatività rispetto allo stato dell’arte  nello studio del Polyomavirus umano JC (JCV), virus nudo di piccole dimensioni con capside a simmetria icosaedrica che racchiude una molecola di DNA circolare a doppio filamento. La via di ingresso di tale virus sembra essere il tratto respiratorio, ed in particolare le tonsille da cui è stato isolato il genoma del virus.  

JCV è un virus ubiquitario, con il 91% della popolazione mondiale adulta che presenta anticorpi JCV-specifici. Nonostante la comparsa degli anticorpi però, il virus non viene eliminato dall’organismo, ma rimane latente nel rene e nel midollo osseo, rendendo l’ospite portatore sano fino ad un’eventuale riattivazione in seguito ad alterazioni immunologiche dell’ospite. La riattivazione è caratterizzata dall’escrezione dei virioni nelle urine e dalla migrazione del virus, attraverso il torrente circolatorio, verso il Sistema Nervoso Centrale (SNC) dove, infettando gli oligodendrociti, causa la Leucoencefalopatia Multifocale Progressiva (PML).

La comparsa di nuovi casi di PML dopo l'introduzione di farmaci biologici immunomodulanti  ha sollevato preoccupazioni in merito al loro profilo di sicurezza. In particolare, il Natalizumab (Tysabri®), un anticorpo monoclonale (mAb) anti-VLA-4 utilizzato per il trattamento delle forme di sclerosi multipla recidivante-remittente (MS) e il morbo di Crohn, e il Rituximab (Rituxan®), un mAb anti-CD20 impiegato nei casi di neoplasie ematologiche e artrite reumatoide, risultano tuttora i principali farmaci biologici associati allo sviluppo di PML. A gennaio 2015 sono stati riportati 514 casi di PML tra i 132.600 pazienti affetti da SM in trattamento con natalizumab in tutto il mondo, con un tasso di mortalità del 20-25% e 57 casi confermati di PML in pazienti con malattie reumatiche autoimmuni (ARD) trattati con Rituximab. Pertanto la Food and Drug Administration ha etichettato questi due farmaci con la sigla "black box warning" per richiamare l'attenzione sui rischi, potenzialmente letali, derivanti dal loro impiego. Nonostante il largo impiego di terapie immunomodulanti, è difficile valutare ancora oggi il rischio di riattivazioni d'infezioni latenti e l'acquisizione di nuove infezioni a seguito del trattamento con questi farmaci. Pertanto, poiché JCV è ubiquitario e non esistono cure per la PML, l'obiettivo principale di questo progetto di ricerca è quello di ottenere un quadro più completo sul rapporto rischio/beneficio associato all’uso dei farmaci biologici e di individuare quelle modificazioni virali che possano essere utilizzate in futuro dai clinici come biomarcatori predittivi di PML. 

In questo I° anno di studio, in campioni biologici di urine e sangue è stata eseguita un’analisi genica di JCV, al fine di individuare possibili riorganizzazioni strutturali di una regione virale altamente ipervariabile e mutazioni nei siti di legame per specifici fattori di trascrizione cellulari.

In studi in vitro su  diverse linee cellulari infettate con JCV sono state analizzate per le variazioni delle capacità replicative e della struttura della sequenza NCCR del virus.  Tali studi consentiranno  di comprendere in quali tipi di cellule il virus possa andare incontro a riarrangiamenti a livello della NCCR e di studiare l’organizzazione mutata di tale regione e la sua evoluzione nel tempo.

I risultati ottenuti hanno dimostrato che l’organizzazione strutturale di questa regione è rimasta invariata durante la propagazione del virus in varie linee cellulari, risultato sorprendente se si considera che la NCCR va generalmente incontro a riarrangiamenti durante la sua persistenza nell’uomo. Ciò potrebbe essere spiegato ammettendo che le cellule trasfettate siano state coltivate per un periodo di tempo più breve rispetto a quello di persistenza della variante archetipa di JCV nell’ospite (vedi dettagli nella scheda tecnica M1.4c).

 

Anche nella parassitologia, la messa a punto di nuove metodologie diagnostiche innovative si è resa necessaria a causa di molte problematiche che possono insorgere sia nelle trasfusioni che nei trapianti di organo. In Italia la legislazione attuale (DMS 2.11.2015)(GU Serie Generale n.300 del 28-12-2015 - Suppl. Ordinario n. 69) prevede lo screening obbligatorio prima della donazione o della trasfusione limitato solo ad alcuni patogeni, oppure controlli ad hoc se in anamnesi sono riportati fattori di rischio (viaggi in aree endemiche, patologie etc.).

Di particolare interesse appare il raggiungimento dell’obiettivo ottenuto dall’UO P1.1.

 

METODOLOGIE INNOVATIVE PER LA DIAGNOSI DI PARASSITI

 

P1.1 Metodologie innovative per la diagnosi di parassitosi umane e zoonotiche

La presenza di parassiti presenti nel sangue e/o negli organi rappresenta una delle principali complicanze correlate alle trasfusioni e ai  trapianti di organo. In particolare, protozoi ematici dei generi Plasmodium, Babesia e Toxoplasma appartenenti al Phylum degli Apicomplexa in letteratura sono riportati come patogeni trasmissibili  attraverso trasfusione o trapianti.

Attualmente, nel caso di Babesia, la sua diagnosi può essere effettuata:

- mediante microscopia, metodica molto economica, poco sensibile nel caso di basse parassitemie, che richiede un personale esperto e necessita di una appropriata strumentazione

- mediante PCR, con notevoli costi dei reagenti, della strumentazione, personale molto esperto e tempi più lunghi di risposta.

Al contrario non esiste nessun test sierologico che permetta la ricerca di anticorpi verso Babesia divergens che è la specie maggiormente riscontrata nell’uomo di Europa.

Obiettivo di questa linea di intervento è quello di sviluppare tools diagnostici innovati, rapidi, specifici e altamente sensibili che permettano di rilevare questi protozoi in tempi rapidi e anche in casi di basse parassitemie perché altamente sensibili. Una diagnosi in tempi brevi è  fondamentale in quanto le sacche di sangue devono essere congelate entro poche ore dal prelievo.

Durante questo primo anno è stato definito lo schema operativo di questa linea di intervento che ha previsto l’arruolamento di una popolazione di donatori afferenti UOC di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale, ai quale prelevare una campione di sangue intero. Dal momento che il progetto coinvolgeva una popolazione di pazienti è stato inoltrato il protocollo di studio al Comitato Etico del Policiclico Umberto per la sua approvazione. Sono stati arruolati 234 donatori italiani e stranieri, purché residenti in Italia da più di 6 anni. I risultati ottenuti sono stati in parte soddisfacenti perché sia i controlli positivi che i donatori precedentemente analizzati sono risultati positivi e gli ampliconi sono stati correttamente sequenziati, ma il saggio è risultato poco specifico in quanto sono stati amplificati anche campioni di sangue nei quali non erano presenti i 3 parassiti e un campione di DNA estratto da feci umane (per i dettagli vedi la scheda tecnica P1.1).

Altro importante obiettivo raggiunto è la caratterizzazione genetica di elminti come descritto nei risultati dell’UO P1.2 di seguito riportati.

 

P1.2a - Caratterizzazione genetica di elminti a trasmissione zoonotica

Echinococcus granulosus e Ascaris lumbricoides, agenti eziologici rispettivamente dell’idatidosi e dell’ascariasi, parassitosi incluse nella lista delle cosiddette “malattie tropicali neglette”, un insieme di 18 malattie infettive causate da batteri, protozoi, virus e parassiti elminti che affliggono più di 1 miliardo di persone. L’idatidosi è una delle parassitosi più gravi per l’uomo, seconda per importanza nella lista dei parassiti trasmessi dagli alimenti. L’ascariasi colpisce circa 1 miliardo e mezzo di persone, di cui circa un terzo di età inferiore ai 14 anni. Nel primo anno di progetto sono stati caratterizzati a livello genetico esemplari di Echinococcus spp. e di Ascaris spp. da vari ospiti animali e da pazienti con lo scopo di stimare i genotipi circolanti in Italia e nei Paesi del Mediterraneo. Rispetto agli approcci diagnostici classici in uso, che si basano su tecniche di immagine e su analisi sierologiche scarsamente specifiche e sensibili, ottenere informazioni sulla genetica del parassita potrebbe rivelare aspetti non ancora chiari sulla patogenicità dei vari ceppi quali la maggiore specificità per l’uomo di alcuni genotipi di Echinococcus o di forme ibride tra A. lumbricoides e A. suum che suggeriscono un ruolo zoonosico per A. suum. I risultati ottenuti da oltre 100 cisti ovine e 17 cisti umane (dettagliati nella scheda tecnica P1.2) evidenziano un numero maggiore di casi umani di idatidosi da genotipo G3 in Italia e la circolazione in Europa di almeno tre genotipi noti (G1, G3 e G7) e di alcune “microvarianti” di Echinococcus spp. Nel caso di infezioni da Ascaris, la genotipizzazione di 35 esemplari da feci umane e 187 da feci di suini ha confermato la presenza del genotipo tipicamente suino di A. suum in pazienti provenienti da Paesi considerati non endemici come l’Italia, e di A. lumbricoides in campioni da Paesi endemici (Colombia) o raccolti in situazioni di disagio sociale (campi nomadi) in Slovacchia.

 

P1.2b - Determinazione di parassiti zoonotici nei prodotti ittici.

Nematodi zoonotici appartenenti ai generi Anisakis (A. simplex s.s. e A. pegreffii) e Pseudoterranova (P. decipiens s.s. P. krabbei e P. bulbosa) parassitano, allo stadio larvale, specie ittiche di interesse commerciale in acque Europee, e causano serie infezioni gastrointestinali all’uomo che si infetta per ingestione di prodotti ittici crudi o mal cotti. La “visualizzazione” di parassiti nel prodotto ittico destinato al consumatore è il prerequisito nell’applicazione delle vigente normativa che regola la presenza di questi parassiti nei prodotti ittici. Gli attuali metodi di identificazione di questi parassiti nelle parti edibili dei pesci si avvalgono di tecniche non rapide, non specifiche, non abbastanza sensibili, e spesso di difficile impiego. Nel primo anno del progetto (come dettagliato nella scheda tecnica P1.2b) è stato messo a punto un metodo di identificazione simultanea di tali parassiti presenti in parti edibili del pesce tramite metodica RT-PCR e impiego di sistemi primers/sonde specie-specifici, costruiti su sequenze del gene mtDNA cox2. Il metodo è risultato in grado di rilevare la presenza del parassita a una minima concentrazione di DNA pari a 0.0006 ng/µl., di discriminare la presenza di 4 specie con un’unica reazione di amplificazione e rappresenta quindi un ottimo strumento innovativo per la valutazione sia qualitativa che quantitativa di parassiti zoonotici e non, in prodotti ittici, sia freschi che trasformati, che potrà essere ulteriormente ottimizzato per rendere possibile la simultanea identificazione di altre ai generi Anisakis, Pseudoterranova e Hysterothylacium.

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